Con Decreto Legge n. 11 dell’8 marzo 2020 sono stati disposti il differimento urgente delle udienze e la sospensione dei termini nei procedimenti civili, penali, tributari e militari.
In ottemperanza al DPCM 8/3/2020 che definisce le regole da osservare nella provincia di Reggio Emilia, anche il nostro studio si vede costretto ad adottare comportamenti volti al contenimento del contagio.
Le conferenze di trattazione a studio, come sempre solo su appuntamento, si svolgeranno solo per esigenze improcrastinabili, mentre il resto dell’attività ordinaria e straordinaria si svolgerà via internet e se necessario in videoconferenza.
E’ stato approvato l’emendamento al decreto Milleproroghe che ESTENDE ALLE ESPROPRIAZIONI IN CORSO il principio – introdotto circa un anno fa – secondo cui il DEBITORE NON PERDE IL POSSESSO DELL’IMMOBILE PIGNORATO SINO AL TRASFERIMENTO, costituisce un grave rischio per il mercato delle aste giudiziarie.
Questo provvedimento non favorirà né gli eventuali acquirenti né i debitori esecutati, e andrà nella direzione opposta a quella che il legislatore sostiene di percorrere, cioè di aiutare i debitori esecutati. Vediamo perché.
Il decreto semplificazioni ha introdotto nel 2019 una norma di forte impatto sulle procedure esecutive. Il provvedimento, infatti, ha riscritto l’art. 560 del codice di procedura civile, stabilendo che il debitore e i familiari con lui conviventi non perdano il possesso dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento.
Più precisamente, la norma prevede che, nelle espropriazioni immobiliari aventi inizio dal febbraio 2019, il giudice non possa “mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia” di tale decreto allorché l’immobile di interesse sia “abitato dal debitore e dai suoi familiari”. Questo, salvo che “sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti”, oppure “l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare” o, ancora, il debitore violi “gli altri obblighi che la legge pone a suo carico”. Una riformulazione, quella varata nel 2019, che già di per sé rappresentava un radicale stravolgimento della precedente impostazione normativa.
Secondo il vecchio testo dell’art. 560, infatti, la permanenza del debitore nell’immobile oggetto di esecuzione forzata costituiva un’eventualità e avveniva a discrezione del giudice dell’esecuzione, che poteva autorizzare il debitore a continuare ad abitare nell’immobile. E in questa prospettiva erano anche previste disposizioni – pure queste soppresse – che dettavano un procedimento semplificato e accelerato per la liberazione dell’immobile.
Ora, invece, è la liberazione anticipata dell’immobile che rappresenta una mera eventualità, condizionata al verificarsi di una delle ipotesi sopra indicate. La regola è l’occupazione del bene da parte del debitore e dei suoi familiari fino al decreto di trasferimento.
In più, l’emendamento al Milleproroghe estende questo meccanismo a tutti i procedimenti pendenti e non solo a quelli avviati a partire da febbraio 2019. Una decisione che porterà solo conseguenze negative. E’ ovvio che un immobile occupato non sia particolarmente appetibile (richiedendo la sua liberazione diverso tempo) e venga, quindi, liquidato con maggior difficoltà. Il risultato è che con questa ulteriore modifica aumenteranno i tentativi di vendita e si ridurranno i prezzi di aggiudicazione, con minore soddisfazione non solo dei creditori, ma anche degli stessi debitori esecutati, cioè proprio dei soggetti che l’intervento di riforma si propone di favorire.
La questione della sosta con aria condizionata accesa è regolata dall’art. 157 comma 7 bis del Codice della Strada, secondo cui “è fatto divieto di tenere il motore acceso, durante la sosta del veicolo, allo scopo di mantenere in funzione l’impianto di condizionamento d’aria nel veicolo stesso”. I trasgressori sono soggetti alla “sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 218 ad euro 435”.
Nel momento in cui la vettura è ferma, non si può lasciare il motore acceso appositamente per far funzionare l’aria condizionata.
Ovviamente la norma è valida sia nel periodo estivo che in quello invernale, quando molti automobilisti utilizzano l’impianto di riscaldamento dell’auto.
L’obiettivo della norma è chiaramente quello di abbassare le emissioni ambientali dei gas di scarico dei veicoli.
Va comunque ricordato che il divieto si intende limitato alla “sosta del veicolo” e non alla “fermata del veicolo”. Si tratta di una differenza molto importante, peraltro chiaramente disciplinata dallo stesso CdS, art. 157 comma 1: “per sosta si intende la sospensione della marcia del veicolo protratta nel tempo, con possibilità di allontanamento da parte del conducente”. Mentre “per fermata si intende la temporanea sospensione della marcia anche se in area ove non sia ammessa la sosta, per consentire la salita o la discesa delle persone, ovvero per altre esigenze di brevissima durata”. Perciò nel caso di breve fermata non è necessario spegnere il motore e si può tranquillamente continuare a usufruire del climatizzatore della macchina.
Senza pretesa di esaustività, si cita qualche provvedimento giurisprudenziale che ha riconosciuto il nesso causale tra somministrazione del vaccino e danni irreversibili al minore.
• Corte di Cassazione, Sezione 6 civile, 1 febbraio 2017, n. 2684. La Corte conferma la sentenza della Corte d’Appello che condannava il ministero della salute a indennizzare una famiglia per i danni da vaccinazione ex lege 210/1992, danni avvenuti 35 anni prima quando il bambino, veniva sottoposto alla somministrazione dei vaccini contro polio, difterite, tetano e morbillo, a seguito dei quali manifestava le prime reazioni avverse che arrivano poi alla diagnosi di “encefalopatia epilettica con grave ritardo psicomotorio e del linguaggio”.
• Corte d’Appello di Milano, 10 novembre 2016, n.1255. La Corte rigetta il ricorso contro la sentenza del Tribunale di Pavia del 14 novembre 2014, n. 127 che riconosceva il nesso causale tra il vaccino somministrato ad una neonata di sei mesi e la grave encefalopatia sviluppata dalla bambina.
• Tribunale di Rimini, 2 luglio 2014, n. 217. Viene nel provvedimento accertato il nesso causale tra epilessia e vaccini e in particolare dichiarato che, nella specie, il minore è stato danneggiato da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni (Antipolio, trivalente MPR, antidifterite, tetano e anti-epatite).
• Tribunale di Pesaro, 11 novembre 2013. Il Tribunale, nella specie, accoglie la domanda della famiglia di un minore affetto da autismo rivolta ad ottenere l’indennizzo di cui alla L. 210/92, riconoscendo il nesso causale sussistente fra la grave patologia sofferta dal bambino e la vaccinazione alla quale era stato sottoposto.
• Tribunale di Pesaro, 1 luglio 2013. Il Tribunale riconosce, l’indennizzo ai sensi della L. 210/92, ad una famiglia per la morte in culla (SIDS) di una bambina in seguito al nesso causale con la somministrazione del vaccino (Esavalente).
• Tribunale di Rieti , 25 settembre 2012, n. 534 . Il Tribunale ha riconosciuto l’esistenza del nesso di causalità tra le vaccinazioni e il diabete di tipo 1 contratto da una bambina, divenuta insulino dipendente, dopo un ciclo vaccinale pressoché completo (ai sensi del calendario vaccinale approvato dal Ministero della Salute) fra vaccinazioni obbligatorie e facoltative.
• Tribunale Rimini, 15 marzo 2012, n. 148. Viene nella specie riconosciuto il nesso di causalità tra la vaccinazione trivalente Morbillo-Parotite-Rosolia, “non obbligatoria ma fortemente incentivata dallo Stato” , e l’autismo di un minore. In particolare il Tribunale specifica che il fatto che la dedotta menomazione permanente della integrità psicofisica sia riconducibile ad una vaccinazione non obbligatoria non puo’ rivelarsi ostativo al riconoscimento dell’indennizzo richiesto.
• Tribunale di Pesaro, sentenza n. 256/2012 (udienza del 4 giugno 2012). Il Tribunale, facendo proprie le conclusioni del CTU, dichiara la sussistenza di un nesso causale fra il ritardo psicomotorio di un bambino e la prima e seconda vaccinazione pediatrica.
• Cassazione Civile, III° Sezione, 27 aprile 2011, n. 9406. La Corte nella specie stabilisce che in tema di responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti alla vaccinazione obbligatoria contro la poliomielite, la normativa nazionale ha previsto in un primo tempo che tale vaccinazione si svolgesse con il sistema del virus attenuato (Sabin) e, successivamente, con quello del virus inattivato (Salk), essendo stata riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale l’astratta pericolosità del primo tipo di vaccino in determinate situazioni. Ne consegue che, ai fini dell’accertamento della responsabilità del Ministero, una volta dimostrato che il danno si sia verificato in conseguenza della vaccinazione col sistema Sabin, il giudice di merito è tenuto a verificare se la pericolosità di quel vaccino fosse o meno nota all’epoca dei fatti e se sussistessero, alla stregua delle conoscenze di quel momento, ragioni di precauzione tali da vietare quel tipo di vaccinazione o da consentirla solo con modalità idonee a limitare i rischi ad essa connessi. (Fattispecie relativa a vaccinazione praticata nel 1981).
• Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, 4 marzo 2010, n. 5190. La Corte dichiara che quando in seguito alla vaccinazione il figlio contrae la poliomielite, non solo il piccolo ha diritto al risarcimento del danno – biologico, morale e patrimoniale – ma anche i genitori (singolarmente) devono essere indennizzati in rapporto alla vita di relazione e al dovere di assistenza continua e solidale al minore per il resto della sua vita dolorosa (nella specie si è accertato che il bambino ha contratto la poliomelite in seguito alla somministrazione del relativo vaccino).
• Tribunale di Ascoli Piceno, 10/05/2008, n. 489. Il Tribunale dichiara nella specie sussistente un nesso causale tra vaccino e ritardo psicomotorio (Si trattava di encefalopatia epilettogena post-vaccinica con ridotta integrità psicofisica del soggetto nella misura del 75%.)
• Tribunale di Genova, 24 settembre 2004. Viene accolta la richiesta dei genitori di un bambino, affetto da “patologia neuropsichica cagionata da vaccino”.
Estate tempo di viaggi e di visite alle città d’arte. Cosa fare in caso di necessità fisiologiche se non ci sono bagni pubblici in zona? Se si entra in un bar è possibile andare al bagno senza dover ordinare qualcosa?
Una normativa obbliga gli esercizi pubblici ad avere un bagno, ma non esiste alcuna normativa che obbliga il gestore dell’esercizio pubblico – come nel caso del bar – a metterlo a disposizione dei clienti in maniera gratuita. Insomma, l’accesso alla toilette, in un modo o in un altro, bisogna pagarlo, salvo che l’esercente non dia il suo consenso.
Infatti il proprietario di un bar è tenuto soltanto ad avere un bagno. A norma e funzionante. Altrimenti è passibile di sanzioni. Soprattutto se il cliente ha ordinato e pagato una consumazione ma si sente dire che il bagno non c’è o è fuori uso. In questo caso, l’avventore può chiamare i vigili urbani per una verifica. Se dal controllo emerge che, in effetti, il locale non ha un bagno a disposizione, il proprietario sarà tenuto a pagare la multa.
Quindi il cliente che paga una consumazione può pretendere di utilizzare il bagno. Secondo il Testo Unico delle Leggi sulla Pubblica Sicurezza (Tulps, art. 187) il gestore di un pubblico esercizio non può rifiutarsi di mettere la sua toilette a disposizione di un cliente pagante senza giustificato motivo.
L’art. 187 del Tulps recita: “Salvo quanto dispongono gli articoli 689 e 691 del codice penale, gli esercenti non possono, senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo”.
Queste le condizioni previste nel Testo per non poter negare un bagno: che chi ne ha bisogno sia un cliente pagante, cioè che abbia preso almeno un caffè o un pacchetto di caramelle, e che non ci sia un giustificato motivo.
Dal momento che la legge costringe il titolare del pubblico esercizio ad avere sempre un bagno a norma e funzionante, l’unico giustificato motivo per impedire ad un cliente di utilizzarlo potrebbe essere che il bagno sia occupato. O che poco prima, ad esempio per un abuso di carta igienica da parte di un precedente utilizzatore, il bagno si sia allagato.
Invece il proprietario del bar non può far pagare una tariffa fissa, una sorta di “tassa-pipì” per andare in bagno senza consumare. Qualche gestore è stato multato perché faceva pagare 1 euro per usare il bagno del bar al cliente che non voleva la consumazione, con la giustificazione che a suo carico sono acqua, pulizia, sapone e carta igienica, ma tale giustificazione non è stata ritenuta valida.
Gli articoli del codice penale richiamati dall’art. 187 del Tulps sopra riportato si riferiscono al legittimo rifiuto da parte dell’esercente di servire bevande alcoliche a soggetti in evidente stato di ubriachezza o infermità o a minori, pena la sospensione dell’esercizio e/o l’arresto.
Rimane la curiosità di appurare perché ai locali pubblici venga imposto di mettere a disposizione dei clienti paganti il proprio bagno ma questo obbligo non valga per Trenitalia: non ci si spiega perché in stazione – sia ferroviaria che metropolitana – dove si è entrati pagando un biglietto – occorra inserire un euro per entrare in bagno!
Via libera definitivo del Senato al ddl sulla tutela delle vittime di violenza domestica e di genere, il cosiddetto Codice rosso. Il provvedimento, che ha incassato l’ok definitivo del Parlamento e che con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale sarà quindi legge, ha ottenuto 197 sì e 47 astenuti. Tra gli astenuti Leu e Pd.
DENUNCE E INDAGINI – La polizia giudiziaria dovra’ comunicare al magistrato le notizie di reato di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e lesioni aggravate avvenute in famiglia o tra conviventi. E la vittima dovra’ essere sentita dal pm entro 3 giorni dall’iscrizione della notizia di reato.
VIOLENZA SESSUALE – Le pene salgono a 6-12 anni rispetto a oggi, quando la reclusione minima e’ di 5 anni e quella massima di 10. La violenza diventa aggravata in caso di atti sessuali con minori di 14 anni a cui e’ stato promesso o dato denaro o qualsiasi altra cosa utile.
STALKING – La reclusione passa dai 6 mesi-5 anni com’e’ oggi, al range del minimo di un anno al massimo di 6 anni e sei mesi.
BOTTE IN FAMIGLIA – Per maltrattamenti contro familiari o conviventi, la reclusione passa dagli attuali 2-6 anni a 3-7 anni; la pena e’ aumentata fino alla meta’ se il fatto avviene in presenza o ai danni di un minore, di una donna in gravidanza, di un disabile oppure se l’aggressione e’ armata.
SFREGI – Il codice penale si arricchisce di un articolo sui casi di aggressione a una persona, con lesioni permanenti al viso fino a deformarne l’aspetto. Il responsabile e’ punito con la reclusione da otto a quattordici anni. Se lo sfregio provoca la morte della vittima, scatta l’ergastolo. E per i condannati sara’ piu’ difficile ottenere benefici come il lavoro fuori dal carcere, i permessi premio e le misure alternative.
STOP ALLE NOZZE FORZATE – Introdotto grazie a un emendamento di Mara Carfagna, punisce chi induce un altro a sposarsi (anche con unione civile) usando violenza, minacce o approfittando di un’inferiorita’ psico-fisica o per precetti religiosi. La pena va da uno a cinque anni, sale a 2-6 anni se coinvolge un minorenne ed e’ aggravata della meta’ se danneggia chi non ha compiuto 14 anni al momento del fatto.
STOP AL REVENGE PORN – Chiunque invii, consegni, ceda, pubblichi o diffonda foto o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito di una persona senza il suo consenso, rischia da uno a sei anni di carcere e una multa da 5000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o acquisito le immagini, le invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso dell’interessato per danneggiarlo. La pena viene aumentata se l’autore della vendetta e’ il coniuge (anche separato o divorziato), un ex o se i fatti sono avvenuti con strumenti informatici
La Commissione Trasporti ha approvato nuove modifiche al codice della strada comprendenti la SOSPENSIONE IMMEDIATA DELLA PATENTE per chi viene trovato con il cellulare in mano mentre guida, nonché una sanzione fino a € 2.588,00.
Si parte, quindi, con la possibilità di semplificare «i procedimenti per l’applicazione delle sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie anche in relazione ai nuovi strumenti di controllo a distanza che consentono l’accertamento della violazione con contestazione differita»: in pratica, la polizia potrà passare con un’auto su cui viene montata una telecamera e riprendere chiunque ha una mano sullo sterzo e un’altra sul cellulare. Le immagini verranno poi visionate in centrale e di lì partiranno le multe direttamente a casa degli automobilisti. Automobilisti che, così, in deroga al principio attualmente in vigore, non subiranno la contestazione immediata dell’infrazione e, per difendersi, dovranno ricorrere al giudice (anticipando ovviamente le spese processuali).
Le multe, come anticipato, saranno più severe con sospensione della patente immediata. In pratica, già per la prima violazione, la sanzione amministrativa pecuniaria (attualmente da euro 161 ad euro 647) salirà tra euro 422 ed euro 1697 e viene introdotta la sospensione della patente di guida da 7 giorni a due mesi. Nel caso di un’ulteriore violazione nel corso di un biennio, la sanzione parte da euro 644 e arriva a euro 2.588, con sospensione della patente di guida da uno a tre mesi; si raddoppia la decurtazione dei punti patente da 5 a 10.
In più, il pacchetto di misure contro gli automobilisti irrispettosi del codice si arricchisce di ulteriori novità altrettanto severe: una su tutte l’applicazione della multa fino a 333 euro a carico del conducente se i passeggeri non hanno allacciato la cintura. Il conducente, insomma, pagherà per tutti. Attualmente la legge pone la sanzione in capo all’effettivo trasgressore (e quindi sul trasportato) salvo nel caso dei minori per i quali risponde il guidatore.
Ci sarà poi il raddoppio della sanzione per chi parcheggia negli spazi destinati a disabili: dagli attuali 334 euro a 647 euro con 4 punti di penalità sulla patente (oggi sono solo 2).
Si prevede poi la circolazione in autostrada di moto elettriche, al momento escluse.
Si permetterà, in caso di deterioramento della targa, di restituirla ed avere un duplicato, senza dover affrontare le più onerose spese di re-immatricolazione.
Si allungherà da sei mesi a un anno la validità del foglio rosa, così da poter sostenere fino a tre prove di esame per la patente».
C’è poi la controversa norma che darà la possibilità ai Comuni di stabilire (come già disposto più volte in passato dal Comune di Reggio Emilia), all’interno dei centri abitati, che le biciclette possano circolare anche in senso opposto all’unico senso di marcia prescritto per tutti gli altri veicoli, indipendentemente dalla larghezza della carreggiata, dalla presenza e dalla posizione di aree per la sosta veicolare e dalla massa dei veicoli autorizzati al transito.
Cosa possono fare i creditori di una società che non paga da diversi mesi?
La risposta è differente a seconda del tipo di società e dello stato in cui si trova. In teoria è più facile recuperare un credito da una società in nome collettivo rispetto a una Srl, così come è preferibile che la società non si trovi già in liquidazione o, peggio, in una situazione di fallimento già dichiarato dal tribunale, ma occorre valutare bene caso per caso.
Le regole da rispettare sono numerose ed è bene che il consulente spieghi che non occorre tener conto solo delle norme giuridiche ma anche dell’opportunità economica. Dal preventivo che il legale è obbligato a fornire in merito ai costi prevedibili per un’azione di recupero crediti, il cliente potrà dedurre se i costi dell’azione legale che intende intraprendere sono superiori al credito che vanta e decidere se proseguire comunque nel tentativo di recupero del credito, sperando nella capienza del patrimonio del debitore e nella sua condanna alle spese di lite.
Quali sono gli step di una azione di recupero crediti?
RICHIESTA CERTIFICATO ALLA CAMERA DI COMMERCIO
Prima ancora di agire, occorre accertare le condizioni della società e della sua composizione, del capitale sociale versato e della sua forma giuridica. Tutti questi dati si deducono da una visura societaria richiesta alla Camera di Commercio. I professionisti consulenti del creditore, avvocati e commercialisti, possono procedere alle richieste di visure anche attraverso portali telematici. A tal fine il creditore dovrà fornire al consulente l’esatta denominazione e la partita Iva con l’indirizzo della sede sociale.
Dalla visura si evince innanzitutto il tipo di società in questione. A riguardo esistono due categorie:
Dalla visura si evince anche lo stato in cui si trova la società: se cioè è in liquidazione oppure è già stata dichiarata fallita dal tribunale.
Dalla visura emergono anche il nome dei soci e degli amministratori, nonché tutti coloro che rivestono eventuali cariche (ad esempio i revisori). A volte, questi dati possono dire molto: quando si intesta una società a una persona nullatenente, pensionata o straniera è facile dedurre che sia un prestanome per non far ricadere conseguenze e responsabilità sui “veri” amministratori.
Da una cd. visura storica potranno emergere anche tutte le vicende passate che hanno caratterizzato la società come ad esempio eventuali versamenti di capitale sociale.
VISURA PROTESTI
Un altro documento che si può richiedere alla Camera di Commercio è una visura protesti dalla quale emergerà se l’impresa non ha pagato cambiali e assegni. Anche questo elemento è importante per verificare la possibilità di recuperare il proprio credito.
BILANCI
Sempre alla Camera di commercio si possono, infine, richiedere i bilanci della società che, con l’ausilio di un legale o di un commercialista, rivelano quanto siano floride le casse sociali e quante possibilità si hanno di recuperare il credito.
RECUPERO CREDITI NEI CONFRONTI DI UNA SOCIETA’ DI CAPITALI
Come anticipato, se il debitore è una Srl, o una Spa o ad una Sapa, l’unica azione possibile è contro la società stessa e non contro i soci o l’amministratore.
La prima cosa da fare sarà inviare una lettera di diffida con raccomandata con ricevuta di ritorno o con posta elettronica certificata, ossia la Pec (l’indirizzo email certificato della società si ricava dall’Indice nazionale Ini-Pec). Tutte le società devono avere obbligatoriamente una Pec. Nella diffida dovranno essere esplicitate le ragioni del credito e indicare l’importo e un termine per ottemperare il pagamento, generalmente dai 7 ai 15 giorni dal ricevimento della diffida.
Se la diffida non riceve risposta, si può chiedere ad un avvocato che proceda ad una diffida a sua volta o in alternativa che proceda direttamente a depositare in tribunale un ricorso per decreto ingiuntivo . Ma ciò solo a condizione che si abbia una prova scritta del credito (ad esempio un contratto o una fattura).
Se, dopo la notifica del decreto del decreto ingiuntivo, il debitore non procede al pagamento, il creditore potrà procedere al pignoramento. Dopo aver notificato l’atto di precetto (che è un invito a pagare entro 10 giorni), obbligatorio prima di iniziare l’esecuzione forzata, si può chiedere al presidente del tribunale di autorizzarti alla consultazione dell’Anagrafe Tributaria, un archivio dell’Agenzia delle Entrate dal quale emergerà se l’azienda debitrice possiede conti correnti o altri redditi.
Non sempre tuttavia questa istanza al presidente del tribunale è conveniente, in particolar modo per crediti molto bassi e perché in alcuni tribunali sono lunghi i tempi di risposta del presidente del tribunale, spesso molto oberato di richieste e udienze.
Un’altra indagine percorribile è la visura immobiliare all’Agenzia delle Entrate, ufficio del Territorio, per verificare se la società debitrice è intestataria di immobili.
Se il pignoramento dovesse risultare infruttuoso, si ha un’ultima opportunità: chiedere il fallimento. Ma anche questa via potrebbe non essere certa. Il fallimento può essere innanzitutto chiesto per crediti non inferiori a 30mila euro. In più la società deve presentare determinate caratteristiche:
RECUPERO CREDITI NEI CONFRONTI DI UNA SOCIETA’ DI PERSONE
Il recupero crediti da una società di persone (s.a.s., s.n.c. o società semplice) è più facile: infatti, oltre alla garanzia del patrimonio sociale si aggiunge quella dei soci. Significa che, se la società non paga il suo debito, il creditore può rivalersi contro tutti i soci individualmente in solido tra loro, arrivando a chiedere un accesso all’Anagrafe Tributaria, a pignorare i loro beni, ad iscrivere ipoteca sulla loro casa, bloccare il loro conto corrente …
La procedura è uguale a quella prevista per il recupero dei crediti nei confronti delle società di capitali.
RECUPERO CREDITI NEI CONFRONTI DI UNA SOCIETA’ IN LIQUIDAZIONE
La procedura non cambia se la società è in liquidazione, con l’unica differenza che al posto dell’amministratore della società debitrice viene nominato un liquidatore incaricato di vendere l’attivo e pagare i creditori. Il creditore dovrà indirizzare la diffida ad adempiere alla società e alla persona stessa del liquidatore, dandogli un termine dai 7 ai 15 giorni per adempiere, con successiva procedura identica a quella già indicata con l’aggravante che se la società è già in liquidazione ha una sofferenza pregressa con evidente maggior difficoltà di recupero del credito.
RECUPERO CREDITI NEI CONFRONTI DI UNA SOCIETA’ FALLITA
Se la società è fallita, il creditore deve presentare una domanda di insinuazione al fallimento inviando una pec al Curatore del fallimento, cioè un professionista nominato dal tribunale con l’incarico di liquidare la società e distribuire il ricavato tra i creditori. Il creditore potrà agire in proprio o avvalersi dell’ausilio di un avvocato. La tempestività è importante.
Le variabili sono numerose: la riscossione dipende da quanto attivo c’è nella società e da quanti creditori sono in fila. Di solito, però, una società fallita è perché ha più debiti che crediti. Saranno allora beneficiati i cosiddetti creditori privilegiati (lavoratori, titolari di ipoteche, ecc.) rispetto ai creditori chirografari (tutti gli altri).
Appena aperto un fallimento si tiene l’udienza di verifica dello stato passivo che serve a quantificare i debiti. Se il creditore si insinua dopo l’udienza potrà sempre far valere il suo credito ma non è detto che vi sia ancora attivo per soddisfare il proprio credito.
Le questioni erano state sollevate dai Tribunali di Pordenone e di Bolzano e vertevano sulla legittimità costituzionale della legge n. 40 del 2004, nel punto in cui vieta alle coppie omosessuali di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita
La Corte, in data 18 giugno 2019, ha ritenuto che le disposizioni censurate non siano in contrasto con i principi costituzionali invocati dai due Tribunali.